Perché
la contemporaneità sente il bisogno di condividersi?
Ebbene,
non c'è l'intenzione di prodursi nella ricerca di una risposta che
si ponga come univoca interpretazione di fatti e di menti, dal
momento che ciascuno esprime (o non esprime) se stesso nel rispetto
più o meno cosciente del sistema complesso delle proprie volontà.
Nessuna
valutazione di carattere generale può esprimersi in proposito nei
termini di un giudizio, né per l'appunto secondo un criterio di
banale univocità.
Si
vuole indagare però sulla necessità di comunicar-si che
ammorba il nostro mondo perennemente online: parliamo di una
condizione specifica tipica di questo secolo e della situazione in
cui versa la società contemporanea, o si tratta piuttosto di una
condizione naturale generale, propria dell'umano in quanto tale?
L'uomo
ci ha dimostrato di saper parlare di sé anche avendo a disposizione
solo un mucchio di terra rossa e la parete di una caverna. Rimane
quindi da capire quale sia la distanza concettuale che corre tra
l'impronta della mano lasciata da un uomo primitivo sulla pietra, ed
un comune post pubblicato su un social-network.
Entrambi
i gesti fanno riferimento alla voglia di dare qualcosa di sé
all'intorno, e di mettersi almeno per un istante al centro di un
mondo. E' la voglia di uscire fuori dai limiti fisici del proprio
corpo e del proprio tempo, dettata dalla consapevolezza di poter
essere immortali solo al di fuori di entrambi.
E
considerando il concetto di immortalità non ci si riferisce al
conseguimento di un obiettivo di natura puramente religiosa, né
tanto meno ad una questione di scissione dell'anima dal corpo: la
necessità di darsi prescinde da tutto questo, legandosi
semplicemente alla ricerca assolutamente umana della propria
antitesi: l'infinità.
Quale
strumento dunque, più efficace della rete? Si confida nella
connessione globale nell'illusione che il fatto di non percepirne
effettivamente i confini faccia di essa una realtà non-finita
Scriviamo
di noi stessi al mondo raggiungendo virtualmente luoghi e persone
fisicamente irraggiungibili, e ci proiettiamo lontano. Bastano pochi
gesti per essere dappertutto, e per regalarci una vivida immagine
mentale della nostra estensione.
E
siamo dappertutto, ma da nessuna parte.
La
triste necessità di far sapere al mondo di un proprio stato d'animo
tramite internet senza la capacità di saper vivere il momento in
serenità con le persone che ci sono fisicamente accanto, od anche il
bisogno impellente di sapere costantemente che succede in luoghi
lontani (offrendo magari a chi ci circonda solo disinteresse), ci
danno la misura della nostra profonda solitudine, e della nostra
strana condizione di uomini persi.
La
fiducia quindi nell'avvicinarsi agli strumenti di social networking
con la speranza di servirsene per sopravvivere alla propria
solitudine è del tutto malriposta, e pur donandoci un immediato
sollievo alla lunga delude tutti, lasciandoci più soli di prima.
E'
anacronistico pensare che una soluzione efficace potrebbe essere
quella di raccomandare un uso più moderato della rete, e promuovere
di contro un ripristino dei modelli comunicativi del passato. Per
altro, non possiamo fare molto per vincere la nostra necessità di
espressione, né la nostra natura di esseri essenzialmente
insoddisfatti e non soddisfabili.
Ma
verificato il fallimento di uno strumento abbiamo per lo meno il
dovere di reintrepretarne l'uso, e di opporci alla schiavitù una
volta riconosciutone il tetro profilo.
L'Era
della Comunicazione può ancora diventare l'Era della Relazione.