sabato 5 maggio 2012

Dappertutto e da nessuna parte.


Perché la contemporaneità sente il bisogno di condividersi?


Ebbene, non c'è l'intenzione di prodursi nella ricerca di una risposta che si ponga come univoca interpretazione di fatti e di menti, dal momento che ciascuno esprime (o non esprime) se stesso nel rispetto più o meno cosciente del sistema complesso delle proprie volontà.
Nessuna valutazione di carattere generale può esprimersi in proposito nei termini di un giudizio, né per l'appunto secondo un criterio di banale univocità.

Si vuole indagare però sulla necessità di comunicar-si che ammorba il nostro mondo perennemente online: parliamo di una condizione specifica tipica di questo secolo e della situazione in cui versa la società contemporanea, o si tratta piuttosto di una condizione naturale generale, propria dell'umano in quanto tale?
L'uomo ci ha dimostrato di saper parlare di sé anche avendo a disposizione solo un mucchio di terra rossa e la parete di una caverna. Rimane quindi da capire quale sia la distanza concettuale che corre tra l'impronta della mano lasciata da un uomo primitivo sulla pietra, ed un comune post pubblicato su un social-network.

Entrambi i gesti fanno riferimento alla voglia di dare qualcosa di sé all'intorno, e di mettersi almeno per un istante al centro di un mondo. E' la voglia di uscire fuori dai limiti fisici del proprio corpo e del proprio tempo, dettata dalla consapevolezza di poter essere immortali solo al di fuori di entrambi.
E considerando il concetto di immortalità non ci si riferisce al conseguimento di un obiettivo di natura puramente religiosa, né tanto meno ad una questione di scissione dell'anima dal corpo: la necessità di darsi prescinde da tutto questo, legandosi semplicemente alla ricerca assolutamente umana della propria antitesi: l'infinità.
Quale strumento dunque, più efficace della rete? Si confida nella connessione globale nell'illusione che il fatto di non percepirne effettivamente i confini faccia di essa una realtà non-finita
Scriviamo di noi stessi al mondo raggiungendo virtualmente luoghi e persone fisicamente irraggiungibili, e ci proiettiamo lontano. Bastano pochi gesti per essere dappertutto, e per regalarci una vivida immagine mentale della nostra estensione.
E siamo dappertutto, ma da nessuna parte.
La triste necessità di far sapere al mondo di un proprio stato d'animo tramite internet senza la capacità di saper vivere il momento in serenità con le persone che ci sono fisicamente accanto, od anche il bisogno impellente di sapere costantemente che succede in luoghi lontani (offrendo magari a chi ci circonda solo disinteresse), ci danno la misura della nostra profonda solitudine, e della nostra strana condizione di uomini persi.
La fiducia quindi nell'avvicinarsi agli strumenti di social networking con la speranza di servirsene per sopravvivere alla propria solitudine è del tutto malriposta, e pur donandoci un immediato sollievo alla lunga delude tutti, lasciandoci più soli di prima.
E' anacronistico pensare che una soluzione efficace potrebbe essere quella di raccomandare un uso più moderato della rete, e promuovere di contro un ripristino dei modelli comunicativi del passato. Per altro, non possiamo fare molto per vincere la nostra necessità di espressione, né la nostra natura di esseri essenzialmente insoddisfatti e non soddisfabili.
Ma verificato il fallimento di uno strumento abbiamo per lo meno il dovere di reintrepretarne l'uso, e di opporci alla schiavitù una volta riconosciutone il tetro profilo.
L'Era della Comunicazione può ancora diventare l'Era della Relazione.